Con l’ordinanza n. 10608 del 4 maggio 2018 della Terza Sezione, la Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi sull’autonoma rilevanza, ai fini di un’eventuale responsabilità risarcitoria, della violazione da parte del personale sanitario del dovere di informare preventivamente e chiaramente il paziente.

Nel caso in esame, una donna ha convenuto in giudizio il medico e la struttura ospedaliera che l’avevano avuta in cura, al fine di ottenere il risarcimento dei danni subiti in conseguenza di inadeguati trattamenti sanitari, cui era stata sottoposta, tra l’altro, senza previa indagine e informativa.

La Suprema Corte, esclusa la sussistenza di un danno alla salute derivante da un’ipotesi di malpractice, si è soffermata sull’esame dell’unico danno potenzialmente risarcibile nella fattispecie, ovvero quello relativo all’eventuale lesione del diritto all’autodeterminazione della paziente, per mancanza di un’adeguata preventiva informazione.

La Corte ha quindi ribadito, consolidando il proprio orientamento, una serie di principi di diritto in materia e, in particolare, ha nuovamente chiarito che dalla violazione del dovere del medico di informare preventivamente e chiaramente il paziente, possono scaturire due diverse tipologie di danni:

alla salute, quando sia ragionevole ritenere che il paziente – su cui grava il relativo onere probatorio -, se correttamente informato, avrebbe evitato di sottoporsi all’intervento e di subirne le conseguenze invalidanti;

da lesione del diritto all’autodeterminazione, il quale si configura “se, a causa del deficit informativo, il paziente abbia subito un pregiudizio, patrimoniale oppure non patrimoniale (ed, in tale ultimo caso, di apprezzabile gravità), diverso dalla lesione del diritto alla salute”. Quest’ultimo tipo di danno, che trova fondamento nei principi costituzionali, rinviene la sua giustificazione nella “legittima pretesa, per il paziente, di conoscere con la necessaria e ragionevole precisione le conseguenze probabili (non anche quelle assolutamente eccezionali ed altamente improbabili) dell’intervento medico, onde prepararsi ad affrontarle con maggiore e migliore consapevolezza”.

Nell’ipotesi in cui l’intervento sia stato eseguito correttamente e non abbia cagionato danno alla salute, la lesione del diritto all’autodeterminazione potrà essere risarcita in via puramente equitativa “tutte le volte che, e solo se, il paziente abbia subito le inaspettate conseguenze dell’intervento senza la necessaria e consapevole predisposizione ad affrontarle e ad accettarle, trovandosi invece del tutto impreparato di fronte ad esse”.

Condizione di risarcibilità di tale danno non patrimoniale è che esso presenti i caratteri della gravità secondo i criteri dettati dalle Sezioni Unite nelle note sentenze di San Martino (cfr. n. 26972 e 26975 dell’11.11.2008), ovvero che varchi la soglia di un certo livello minimo di tollerabilità da valutarsi secondo il parametro della coscienza sociale in un determinato momento storico. Il paziente dovrà comunque fornire la prova del pregiudizio subito, anche mediante presunzioni, “fondate, in un rapporto di proporzionalità inversa, sulla gravità delle condizioni di salute del paziente e sul grado di necessarietà dell’operazione”.

Alla luce dei principi esposti, la Corte ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso, in quanto la ricorrente non ha allegato, ancor prima che provato, che in presenza di adeguata informativa non si sarebbe sottoposta all’intervento; né la paziente ha allegato specificamente di avere chiesto il risarcimento del danno derivante dalla lesione del proprio diritto all’autodeterminazione.

 

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