Segnaliamo l’interessante sentenza n. 18057/23, in cui la Corte di Cassazione torna a pronunciarsi su un tema di grande attualità, ovvero il delicato rapporto tra l’esercizio della libertà di espressione e la responsabilità penale per il reato di diffamazione.

Instagram o Facebook sono diventati una vera e propria piattaforma virtuale, in cui ciascun utente raggiunge migliaia di persone con opinioni e giudizi di vario genere.

Tuttavia, è sempre più frequente l’uso improprio di questi social network, che divengono veicolo di messaggi gravemente offensivi e, come tali, forieri di conseguenze anche penali per gli autori.

Come noto, i requisiti essenziali del reato di diffamazione, previsto e punito dall’art. 595 del Codice Penale, sono l’offesa dell’altrui reputazione e l’assenza del soggetto passivo.

La pubblicazione di contenuti attraverso i social network integra la forma aggravata della fattispecie, che prevede la reclusione da sei mesi a tre anni o la multa non inferiore a € 516,00.

Nel caso in esame, il ricorrente ha impugnato la sentenza di condanna in appello ritenendo che le frasi da lui pubblicate su Facebook non avessero alcuna valenza offensiva o diffamatoria e che gli epiteti utilizzati, come “ignorante … cretino … sciacqua lattughe” fossero espressioni dialettali riconducibili al legittimo esercizio del diritto di critica politica che, per sua stessa natura, presuppone l’utilizzo anche di espressioni forti e suggestive.

La Cassazione, tuttavia, si è dissociata da tale tesi difensiva e ha chiarito che la scriminante del diritto di critica politica non può trovare applicazione quando la condotta dell’agente trasmodi in aggressioni gratuite, non pertinenti ai temi in discussione, intese non tanto a criticare i programmi e le azioni dell’avversario, quanto piuttosto a screditarlo mediante l’evocazione di una sua presunta inadeguatezza.

Le espressioni inutilmente umilianti, infatti, assumono rilevanza penale in quanto eccedenti rispetto al limite della continenza imposto dal legislatore.

La Corte ha ritenuto che le frasi pubblicate dall’imputato sulla pagina Facebook avessero una valenza chiaramente denigratoria, anche in considerazione del fatto che l’uomo non perdeva occasione per commentare qualsiasi esternazione anche non inerente ad argomenti strettamente politici, apparendo gli interventi evidentemente finalizzati ad insultare pubblicamente la persona offesa, che neppure conosceva personalmente e che più volte lo aveva diffidato.

La Cassazione ha quindi dichiarato inammissibile il ricorso, ritenendo del tutto pretestuosa l’evocazione di un contesto di contrasto politico.

Benché determinati epiteti siano entrati nel linguaggio comune o rappresentino modalità verbali colloquiali, nondimeno la loro valenza offensiva non viene vanificata dall’uso in contesti di tipo colloquiale, personale, quali quelli tra soggetti legati da vincoli di amicizia, dovendosi ritenersi come la valenza denigratoria insita nel lemma lessicale si riespanda totalmente allorquando l’uso risulti del tutto gratuito”, come verificatosi nel caso di specie.