Con il patto di prova datore di lavoro e lavoratore concordano che la definitiva instaurazione del rapporto di lavoro sia condizionata al preventivo esperimento di un periodo, appunto, di prova.

Il patto di prova ha, quindi, lo scopo di consentire al lavoratore di valutare l’esperienza lavorativa offerta e al datore di lavoro di valutare le competenze e le capacità del lavoratore nonché la sua attitudine ad integrarsi nel contesto aziendale.

La legge (art.2096 c.c.) richiede la forma scritta per la validità del patto di prova.

La sottoscrizione del patto di prova deve essere precedente all’effettivo inizio dell’attività o, al più, contemporanea a tale momento.

La durata del periodo di prova non può superare i:

  • 6 mesi per tutti i lavoratori (art.10 L. n.604/1966);
  • 3 mesi per gli impiegati non aventi funzioni direttive (art.4 RDL n.1825/24).

Di fatto, la durata è stabilita dai contratti collettivi con riguardo alla qualifica e all’inquadramento del lavoratore.

Nei rapporti di lavoro a tempo determinato, il periodo di prova deve essere riproporzionato, salvo specifica previsione contenuta nel contratto collettivo, alla durata del rapporto stesso.

Durante il periodo di prova ciascuna delle parti può recedere liberamente dal contratto, senza obbligo di preavviso.

Ricordata, brevemente, la disciplina del patto di prova, ci si chiede in particolare se è legittima la riproposizione di tale patto tra le stesse parti in caso di successione di contratti.

La Cassazione, con la recente pronuncia n. 25368/2016, pubblicata il 12 dicembre 2016, ha affermato il principio secondo cui il patto di prova apposto in successivi contratti di lavoro è legittimo al verificarsi di determinate condizioni.

Nello caso sottoposto all’esame della Suprema Corte, il lavoratore lamentava la nullità del patto di prova apposto – e, quindi, l’illegittimità del licenziamento irrogato per mancato superamento della prova – sul presupposto che tale patto era stato inserito in tutti i sette (compreso l’ultimo) contratti di lavoro a tempo determinato, aventi tutti identica mansione, stipulati con il medesimo datore di lavoro.

Secondo la tesi del lavoratore, il patto di prova non poteva essere apposto nei contratti di lavoro successivi al primo in quanto, a parità di mansioni, il datore di lavoro era stato già in grado di verificarne le capacità professionali.

La Corte di Cassazione ha però affermato che “la ripetizione del patto di prova in successivi contratti di lavoro tra le medesime parti è ammissibile se, in base all’apprezzamento del giudice di merito, vi sia la necessità per il datore di lavoro di verificare oltre alle qualità professionali, anche il comportamento e la personalità del lavoratore in relazione all’adempimento della prestazione, trattandosi di elementi suscettibili di modificarsi nel tempo per molteplici fattori”.

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