Dei quesiti referendari proposti dalla CGIL la Consulta ha ritenuto ammissibile – oltre a quello sui famigerati voucher – quello riguardante l’art. 29, comma 2 del Decreto Legislativo 276/2003, che si occupa dei lavoratori coinvolti negli appalti e della loro tutela nel caso in cui il datore di lavoro – appaltatore (o subappaltatore) non paghi stipendi e TFR e non versi i contributi all’INPS ed i premi all’INAIL.

La materia non è semplice, anche perché nel tempo la norma di legge è stata variamente modificata.

Questa la formulazione originaria, risalente al 2003, del comma 2 dell’art. 29: “In caso di appalto di servizi il committente imprenditore o datore di lavoro è obbligato in solido con l’appaltatore, entro il limite di un anno dalla cessazione dell’appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi e i contributi previdenziali dovuti”.

La norma era apparentemente chiara: sul presupposto che l’impresa committente è normalmente più ‘solida’ dell’appaltatrice, la legge aveva inteso tutelare i dipendenti della seconda che avevano operato nell’ambito dell’appalto per il caso di mancato pagamento dello stipendio e di omesso versamento dei contributi.

Tuttavia, è stato valutato che, come formulata, non consentisse una tutela piena, lasciando spazio tra l’altro a numerosi dubbi interpretativi.

Così, il comma 2 dell’art. 29 è stato varie volte modificato: nel 2004, 2007, 2012 due volte, 2013 e 2014.

La disposizione in vigore è la seguente:

“Salvo diversa disposizione dei contratti collettivi nazionali sottoscritti da associazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative del settore che possono individuare metodi e procedure di controllo e di verifica della regolarità complessiva degli appalti, in caso di appalto di opere o di servizi, il committente imprenditore o datore di lavoro è obbligato in solido con l’appaltatore, nonchè con ciascuno degli eventuali subappaltatori entro il limite di due anni dalla cessazione dell’appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi, comprese le quote di trattamento di fine rapporto, nonchè i contributi previdenziali e i premi assicurativi dovuti in relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto, restando escluso qualsiasi obbligo per le sanzioni civili di cui risponde solo il responsabile dell’inadempimento. Il committente imprenditore o datore di lavoro è convenuto in giudizio per il pagamento unitamente all’appaltatore e con gli eventuali ulteriori subappaltatori. Il committente imprenditore o datore di lavoro può eccepire, nella prima difesa, il beneficio della preventiva escussione del patrimonio dell’appaltatore medesimo e degli eventuali subappaltatori. In tal caso il giudice accerta la responsabilità solidale di tutti gli obbligati, ma l’azione esecutiva può essere intentata nei confronti del committente imprenditore o datore di lavoro solo dopo l’infruttuosa escussione del patrimonio dell’appaltatore e degli eventuali subappaltatori. Il committente che ha eseguito il pagamento è tenuto, ove previsto, ad assolvere gli obblighi del sostituto d’imposta ai sensi delle disposizioni del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e può esercitare l’azione di regresso nei confronti del coobbligato secondo le regole generali”.

Indubbiamente di formulazione più complessa, la norma contiene disposizioni che hanno ampliato la tutela dei lavoratori, ma anche che impongono specifici adempimenti anche procedurali a carico di tutti i soggetti coinvolti.

Così, da un lato, la responsabilità del committente è estesa non solo a retribuzioni e contributi previdenziali, ma anche alle quote di TFR maturate nel corso dell’appalto ed ai premi da versare all’INAIL.

Ancora, il termine di decadenza dell’azione del lavoratore nei confronti dell’impresa committente è stato definitivamente fissato in due anni dalla cessazione dell’appalto.

D’altro lato, è fissato l’obbligo per il lavoratore di chiamare in causa non solo il proprio datore di lavoro – appaltatore, ma anche l’impresa committente ed è stato introdotto (dal 2012) il cosiddetto beneficio della preventiva escussione del patrimonio dell’appaltatore.

Cosa comporta tale beneficio?

Abbiamo visto che il lavoratore deve agire in giudizio per l’accertamento del proprio credito sia verso il datore di lavoro – appaltatore sia verso l’impresa committente. Tuttavia, la committente può ottenere che in prima istanza il credito sia pagato dall’appaltatore e che, solo in caso di insolvenza di questo, sia essa stessa tenuta a pagare.

E’ proprio sul beneficio della preventiva escussione del patrimonio dell’appaltatore che siamo chiamati a votare.

Se all’esito del referendum la disposizione sia abrogata, il lavoratore potrà (come in passato poteva) rivolgersi indifferentemente al proprio datore di lavoro – appaltatore o all’impresa committente per avere pagati i trattamenti retributivi e le quote di TFR maturate nel corso dell’appalto.

A prescindere dalle valutazioni di merito che ciascuno farà, è interessante rilevare che, qualsiasi sia l’esito del referendum, il panorama giuridico non presenterà maggiore semplicità.

Non dimentichiamo che il codice civile prevede il diritto dei lavoratori di agire direttamente nei confronti del committente per le retribuzioni impagate nei limiti del debito residuo del committente verso l’appaltatore per lo specifico appalto.

D’altro canto, l’orientamento legislativo comunitario è nel senso di rendere escludibile per l’impresa committente la responsabilità solidale in forza di comportamenti di due diligence, adottando cioè comportamenti diligenti.

Comunque la si veda, la committente è sin da ora chiamata a svolgere verifiche approfondite sull’impresa alla quale intenda assegnare un appalto e ad esercitare un controllo continuo nel corso del contratto del corretto adempimento da parte dell’appaltatrice degli obblighi verso i dipendenti e gli enti previdenziali e assistenziali.

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