103 vittime di femminicidio al 13 novembre 2021. Oltre 1100 processi pendenti in Corte di Appello a Milano per reati nei confronti delle donne e dei minori. Un numero, 1100, che non tiene conto né dei giudizi conclusisi con il solo primo grado né l’enorme quota di sommerso che tuttora permane.

Con altre colleghe dello studio, qualche giorno fa, ho avuto modo di ascoltare un’interessante conferenza in cui sono venuta a conoscenza di uno splendido progetto perseguito a livello nazionale dall’associazione Soroptimist: la realizzazione di camere di ascolto –  previste presso le caserme delle forze dell’ordine – a misura di donna, in cui le vittime possano, già dall’ambiente che le circonda, sentirsi accolte oltre che seguite con competenza e professionalità nel difficilissimo momento in cui, fra vergogna e sensi di colpa, rendono le dichiarazioni su quanto hanno subito e subiscono.

Sono, queste dichiarazioni, un elemento dirimente in questo tipo di giudizi in cui normalmente le altre prove che è talvolta possibile produrre sono i referti del pronto soccorso.

Evidente quindi il valore del progetto che ha dato a queste stanze un nome davvero evocativo: “la stanza tutta per sé”, richiamando il celeberrimo testo di Virginia Woolf “Una stanza tutta per sé” appunto, in cui la scrittrice, nel 1929, sosteneva che il ritardo o l’assenza di affermazione femminile fosse riconducibile al fatto che la donna non avesse mai goduto di una stanza tutta per sé in cui esprimersi  – nelle arti, nel pensiero –  in maniera diversa  da quella di fattrice, di domestica, di oggetto di piacere impostale da una società maschile.

Il concetto, in maniera non così poetica, era già stato elaborato da tempo, dalle donne che si erano battute per diritto di voto ma non solo. Penso a Lidia Poët, la prima avvocata italiana che si vide negare il diritto di esercitare la professione perché donna. Siamo a metà del 1800 e già nella sua tesi di laurea evidenziava come l’emancipazione della donna passasse attraverso l’istruzione e l’indipedenza economica.

A tutt’oggi sono questi i temi centrali, posti al centro anche dei recenti interventi legislativi, così come è di questi giorni la riforma del “Codice rosso”, emanato nel 2019 a tutela delle donne e dei soggetti deboli vittime di violenza che ha proprio previsto un contributo economico, detto “reddito di libertà”, volto a limitare le pesanti ripercussioni finanziare cui va incontro la donna che denuncia e, allontanandosi dal compagno, perde spesso quella che è l’unica fonte di sostentamento, sua e dei figli.

Indubbiamente è questa – unita all’indispensabile sinergia di tutti gli operatori coinvolti e all’attenzione al linguaggio –  la strada da seguire e molto è stato fatto ma, quel numero, 103, con cui abbiamo iniziato la nostra riflessione, ci dice che il cammino sarà lungo e impervio e che nessuno può chiamarsi fuori.

É con questo spirito che stamane nelle nostra sede di Busto Arsizio abbiamo voluto firmare, uno per uno, la classica panchina rossa in memoria di tutte le vittime di violenza ricordando anche quelle che sono più lontane geograficamente e quindi meno percepite: le donne afgane segregate, con brutalità e violenza, dopo essersi affacciate per un breve periodo su un mondo di diritto e di libertà. Non so a voi ma a me l’immagine di quelle studentesse che, in pieno covid, ben distanziate sulle dune, sostenevano gli esami di ammissione all’Università torna spesso con strazio alla mente.

A tutte queste donne, più vicine o più lontane da noi, vanno i nostri pensieri.