In attesa dalla pubblicazione del Decreto Fiscale, che prorogherà la cassa integrazione in deroga e l’assegno ordinario (FIS) fino al 31 dicembre 2021, per molte aziende è ormai cessato, o si verrà meno a breve, il blocco dei licenziamenti.

La sentenza n. 26454 del 29 settembre 2021 della Corte di Cassazione, relativa all’applicazione dei criteri di scelta nelle procedure di licenziamento collettivo, offre lo spunto per tornare in tema ed approfondire aspetti talvolta sottovalutati che, se trascurati, possono portare a conseguenze anche molto gravi.

Al termine della procedura di licenziamento collettivo si pone, infatti, il problema di individuare concretamente i lavoratori destinatari del provvedimento di recesso, nell’ambito dei reparti/funzioni oggetto di riduzione.

Fatto salvo il raggiungimento di un accordo sindacale, i criteri di scelta, che devono essere valutati in concorso tra loro, sono:

a) i carichi di famiglia: si considera la situazione economica del nucleo famigliare individuando i famigliari “a carico” risultanti dalle detrazioni fiscali applicate in busta paga;

b) l’anzianità: da intendersi quella di servizio che si computa dall’assunzione e non quella anagrafica;

c) le esigenze tecnico produttive ed organizzative: sulla base del progetto di riduzione del personale, vengono individuati i settori che non sono più di interesse, ad esempio perché cessati o da cessare, nonché, viceversa, quelli per cui permane utilità.

Allo scopo di impedire comportamenti discriminatori, la Legge n. 223/1991 assicura anche il rispetto delle c.d. “quote rosa” e delle “quote invalidi”, argomenti oggi al centro di numerosi dibattiti e che rendono la disposizione di grande attualità anche se sono passi trent’anni dalla sua emanazione.

In particolare, con riferimento alle “quote rosa”, l’art. 5, comma 2 della legge citata prevede che “l’impresa non possa licenziare una percentuale di manodopera femminile superiore alla percentuale di manodopera femminile occupata con riguardo alle mansioni prese in considerazione”.

La norma, di non facile applicazione, è stata oggetto di varie interpretazioni e pronunce giurisprudenziali che si sono succedute nel tempo, tra cui appunto da ultimo la sentenza n. 26454/2021.

Secondo la Corte di Cassazione l’interpretazione deve essere letterale: non deve essere effettuata una comparazione fra il numero di lavoratori dei due sessi prima e dopo il licenziamento, ma occorre individuare la percentuale di donne lavoratrici ante procedura e poi disporre il licenziamento di un numero di donne non superiore a detta percentuale. Va sottolineato che il computo della percentuale deve essere effettuato considerando solo il settore/mansioni oggetto di riduzione e non l’intero organico.

Ad esempio: se nel reparto sono assunti 6 uomini e 3 donne con medesime mansioni, la manodopera femminile è pari al 33,33%. Supponendo che le figure in esubero siano 3, l’azienda non potrà licenziare 2 donne ed 1 uomo perchè in questo caso la percentuale di donne licenziate sarebbe pari al 66,66%, e quindi superiore alla quota rosa individuata.

Occorre, quindi, fare sempre molta attenzione a rispettare tale quota poiché, diversamente, il licenziamento può essere dichiarato nullo perché discriminatorio, con applicazione della tutela più forte prevista all’art. 18, comma 1 L. 300/1970 che comporta la reintegrazione nel posto di lavoro ed il diritto all’indennità risarcitoria dal giorno del licenziamento a quello dell’effettiva reintegrazione.