Lo scorso 8 giugno 2016 è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea (GUUE) la direttiva n. 2016/943 sulla protezione del know-how riservato e delle informazioni commerciali riservate (segreti commerciali) contro l’acquisizione, l’utilizzo e la divulgazione illeciti (la c.d. “direttiva segreti commerciali”) che obbliga gli Stati Membri, entro il 9 giugno 2018, ad adottare – a tutela delle imprese e degli enti di ricerca non commerciali – norme in materia di protezione dei segreti commerciali e delle informazioni riservate.

Per segreto commerciale – la definizione è data all’articolo 2 – si intendono quelle informazioni che soddisfano tutti i seguenti requisiti:

i) sono segrete nel senso che non sono, nel loro insieme o nella precisa configurazione e combinazione dei loro elementi, generalmente note o facilmente accessibili a persone che normalmente si occupano del tipo di informazioni in questione;

ii) hanno valore commerciale in quanto segrete;

iii) sono state sottoposte a misure ragionevoli, secondo le circostanze, da parte della persona al cui legittimo controllo sono soggette, a mantenerle segrete.

Se da un lato è importante sottolineare come la definizione è la medesima data all’articolo 39 comma 2 del ADPIC* (Accord sur les aspects des droits de propriété intellectuelle qui touchent au commerce del 1994), dall’altro si deve necessariamente rilevare che la “mancanza di conoscenza” da parte di terzi non è articolata in termini assolutamente rigidi: si considera segreto ciò che non è generalmente noto alle persone che normalmente si occupano di quel tipo di informazioni e neppure facilmente accessibile a queste. Così facendo la prova circa il carattere confidenziale e segreto dell’informazione non si fa dipendere dall’esistenza di mezzi di occultamento assolutamente infallibili – che trasformano le informazioni in una sorta di tesoro nascosto e impenetrabile – ma solo da quei mezzi ragionevolmente necessari per garantire che l’accesso alle informazioni non sia facile.

Quanto al valore commerciale, invece, si è inteso un valore economico che sia presente ma anche futuro (ad esempio che l’informazione è necessaria per il suo titolare al fine di mantenere l’attuale posizione nel mercato o quella in un futuro prossimo).

Il c.d. titolare del segreto commerciale è stato tradotto con la parola “detentore”, cioè con “qualsiasi persona fisica o giuridica che controlla legittimamente un segreto commerciale”.

Facendo un’analisi comparatistica, la traduzione adottata pone dei dubbi soprattutto se paragonata al nomen utilizzato nelle altre nazioni (“holder” inglese, “détenteur” francese, “Inhaber” tedesco e “possedor” spagnolo). Secondo il diritto italiano, infatti, la detenzione consiste nell’avere la disponibilità di una cosa quindi nell’avere la possibilità di utilizzarla tutte le volte che lo si desideri con la consapevolezza, però, che essa appartiene ad altri ai quali comunque si deve render conto.

Anche leggendo i Considerando della Direttiva (in particolare il n. 2, 3 e 4) si capisce l’imprecisione del termine poiché la direttiva è rivolta non a qualsiasi soggetto che “detiene” le informazioni considerate segreto commerciale ma a chi ne è effettivamente il “titolare” o il “creatore”.

Pare quindi preferibile, secondo il diritto italiano, considerare il detentore come il “proprietario” delle informazioni considerate segreto commerciale.

La c.d. direttiva segreti commerciali

L’autore della violazione è stato individuato in “qualsiasi persona fisica o giuridica che ha illecitamente acquisito, utilizzato o divulgato un segreto commerciale”. All’articolo 3 è previsto quando l’acquisizione, l’utilizzo e la divulgazione dei segreti commerciali sono considerati leciti mentre al successivo articolo 4 quando sono considerati illeciti (si rimanda alla lettura dei due articoli per quanto attiene ai requisiti). Il Capo II della direttiva, su questo punto, si chiude con una serie di eccezioni quali, ad esempio, se la presunta acquisizione, il presunto utilizzo o la presunta divulgazione del segreto commerciale siano avvenuti nell’esercizio del diritto di libertà di espressione e d’informazione oppure per rivelare una condotta scorretta, irregolare o un’attività illecita, a condizione, però, che il soggetto abbia agito per proteggere l’interesse pubblico generale: è stata data così rilevanza ai c.d. whistleblowers, quindi a quei soggetti che divulgano un’informazione – confidenziale in questo caso – al fine di denunciare una situazione illegale o irregolare.

Quanto alla portata delle eccezioni parrebbe che le stesse debbano essere intese come ampie: in caso contrario, infatti, la dimensione ed il valore dei segreti commerciali sarebbero superiori a quelli della libertà di informazione e di espressione, diritti, questi, che devono essere sempre prevalenti nella società (sempre in un’ottica comparatistica si veda Sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo [CEDU], caso Fuentes Bobo contro Spagna, sentenza del 29 febbraio 2000, ricorso n° 39293/98).

Il Capo III della Direttiva è dedicato alle “Misure, procedure e strumenti di tutela”, che si dividono in “Misure provvisorie e cautelari” ed in “Misure adottate a seguito di decisione sul merito della controversia”. Le misure dovranno essere giuste, eque, efficaci, dissuasive e tali da non comportare tempi irragionevoli o ritardi ingiustificati: dovranno quindi corrispondere ad un esercizio pratico del diritto volto ad una tutela giurisdizionale effettiva, cosi che il richiedente riceve delle risposte dall’ordinamento giuridico precise e necessarie per evitare che l’altra parte benefici indebitamente dalla “scoperta”.

La Direttiva quindi è orientata ad una soluzione giudiziale della controversia (all’articolo 9 si utilizza il termine “procedimenti giudiziari”, agli articoli 10 e 11 “autorità giudiziarie” mentre all’articolo 15 “pubblicazioni delle decisioni giudiziarie”) e pare che sia stato escluso a priori la possibilità di adottare una ADR. All’interno del giudizio la Direttiva disciplina anche il numero (limitato) di persone che possono accedere ai documenti che contengono segreti commerciali, fermo restando, ovviamente, il diritto ad un giusto processo.

Il termine di prescrizione per l’esercizio del diritto non è stato definito, se non nel limite, lasciando così spazio agli Stati Membri: la Direttiva si preoccupa solo di stabilire che questo non deve essere superiore a sei anni.

Da ultimo, all’articolo 14 è previsto il risarcimento del danno (“gli Stati membri assicurano che le competenti autorità giudiziarie, a richiesta della parte lesa, ordinino all’autore della violazione che era o avrebbe dovuto essere a conoscenza del carattere illecito dell’acquisizione, dell’utilizzo o della divulgazione del segreto commerciale, di provvedere in favore del detentore del segreto commerciale al risarcimento dei danni in misura adeguata al pregiudizio effettivo subito a seguito dell’acquisizione, dell’utilizzo o della divulgazione illeciti del segreto commerciale”). Per determinare l’importo del risarcimento le autorità giudiziarie dovranno tenere in considerazione tutti i fattori rilevanti nel caso concreto come i pregiudizi economici, il lucro cessante, l’arricchimento ottenuto dall’autore della violazione ma anche il danno morale arrecato al titolare del segreto commerciale.

In conclusione, la Direttiva costituisce, da un lato, una strumento con il quale preservare e garantire il carattere segreto di determinate informazioni che per il loro valore commerciale devono necessariamente essere tutelate e, dall’altro, un mezzo per armonizzare le discipline nazionali ad oggi troppo differenti. Per l’Italia la Direttiva dovrà essere recepita tenendo in considerazione la tutela delle informazioni segrete già prevista nel Codice della Proprietà Industriale agli articoli 98 e 99.

* Accordo sugli aspetti commerciali dei diritti di proprietà intellettuale, spesso noto con l’acronimo inglese TRIPS, è un trattato internazionale promosso dall’Organizzazione Mondiale del Commercio, meglio conosciuta come WTO, al fine di fissare lo standard per la tutela della proprietà intellettuale.