Il lavoratore che beneficia dei permessi ex lege 104/1992 ha diritto di scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al domicilio del familiare con grave handicap e non può essere trasferito in altra senza il proprio consenso (art. 33, comma 5, legge 104/1992).

Questo regime di protezione è finalizzato a consentire al disabile di mantenere invariate le proprie condizioni di cura e di assistenza.

Tali interessi possono, però, confliggere con le esigenze del datore di lavoro che potrebbe, infatti, trovarsi di fronte alla necessità di destinare il lavoratore ad altra sede.

Che margini di azione ha, quindi, l’imprenditore?

Negli anni si sono succedute varie pronunce, sia di merito sia di legittimità, che hanno valorizzato prevalentemente le esigenze di assistenza e di cura del familiare portatore di grave handicap.

Con la recente sentenza n. 704 del 18 gennaio 2021, la Cassazione ha però chiarito che deve esserci sempre e comunque un giusto bilanciamento tra il diritto del lavoratore che assiste un familiare disabile a non vedersi variata la sede di assegnazione senza il suo consenso e le esigenze del datore di lavoro per evitare che in capo a quest’ultimo si verifichi un pregiudizio.

A tale proposito, vi è anche da considerare che al datore di lavoro non può nemmeno imporsi di sostenere costi aggiuntivi per evitare di variare la sede di assegnazione del lavoratore.

Seguendo i principi anzidetti non è quindi aprioristicamente preclusa al datore di lavoro la possibilità di trasferire il lavoratore che fruisce di permessi ex lege 104/1992 anche in assenza di accordo.

Il rifiuto ad essere trasferito, previsto dall’art. 33 della legge 104/1992 non si configura, infatti, come un diritto soggettivo assoluto in capo al lavoratore.

L’imprenditore deve, però, dimostrare, con onere esclusivamente a suo carico, che il trasferimento del lavoratore sia lo strumento effettivamente idoneo, se non addirittura l’unico, a soddisfare le proprie ragioni tecniche, organizzative e/o produttive.