Suscita sempre un acceso dibattito il tema delle tipizzazioni delle infrazioni contenute nel CCNL ai fini del giudizio di congruità e, quindi, validità del licenziamento irrogato nei confronti del lavoratore, colpevole di condotte inadempienti.

E’ bene ricordare che l’art.18, comma 4, Statuto dei Lavoratori – applicabile ai rapporti di lavoro instaurati prima del 7 marzo 2015 all’interno di aziende che occupano più di 15 dipendenti – stabilisce che se l’inadempimento rientra tra le condotte punibili dal CCNL con una sanzione conservativa, il lavoratore licenziato ha diritto, in caso di tempestiva impugnazione, alla reintegrazione ed all’indennità risarcitoria fino ad un massimo di 12 mensilità, dedotti gli eventuali aliunde perceptum e percepiendum, oltre alla regolarizzazione della posizione contributiva.

Con due recenti sentenze, la n.18334 e la n.19181 rispettivamente del 7 e del 14 giugno 2022, la Cassazione ha avuto modo di pronunciarsi nuovamente sulla valenza delle previsioni del CCNL ai fini dei provvedimenti disciplinari e, segnatamente, del licenziamento per giusta causa.

Con la prima decisione la Suprema Corte è giunta alla conclusione che, per valutare la proporzione del licenziamento disciplinare, può non essere sufficiente che la condotta contestata rientri tra quelle punite dal CCNL con la sanzione espulsiva.

Con la seconda, gli Ermellini hanno chiarito che la tipizzazione del CCNL non è in ogni caso vincolante, competendo comunque al giudice la valutazione della gravità della condotta e la proporzionalità della sanzione, anche tramite criteri sussuntivi.

A quali conclusioni – meglio, consigli – è possibile, quindi, giungere se si deve procedere all’irrogazione di una sanzione disciplinare che sia poi in grado di reggere l’eventuale impugnazione del lavoratore?

Innanzitutto, la tipizzazione contenuta nel CCNL, seppure non vincolante in termini assoluti, rappresenta comunque un valido parametro da considerare per la determinazione della sanzione, qualunque essa sia (conservativa oppure espulsiva).

Ciò sul presupposto che le parti sociali con la pattuizione contenuta nel CCNL hanno condiviso e stabilito una “scala valoriale” circa i vari possibili inadempimenti, presumendosi, quindi, una valutazione sia in termini generali (disvalore sociale e civile della condotta) sia specifici (tenendosi conto, ad esempio, del settore di attività).

Inoltre, è da considerare che la tipizzazione del CCNL è meramente esemplificativa e quindi può anche essere superata.

Se si ragiona in termini di licenziamento occorrerà ovviamente argomentare e dimostrare che l’inadempimento del lavoratore non consentiva la prosecuzione, nemmeno provvisoria, del rapporto di lavoro secondo il precetto dell’art.2119 c.c..

Depone in tale senso l’argomentazione della Cassazione secondo la quale non è preclusa al giudice la facoltà di effettuare un’autonoma valutazione in ordine alla gravità della condotta, prescindendo dalla clausola sociale: è, infatti, sempre necessario esaminare in concreto se il comportamento sia stato tale da ledere la fiducia del datore di lavoro e/o da contrastare in modo evidente con gli scopi aziendali e/o con il corretto funzionamento dell’attività.