L’art. 8 D.Lgs. 8/2015 prevede che il rifiuto del lavoratore di trasformare il rapporto di lavoro da part time a full time – o viceversa – non costituisce giustificato motivo di licenziamento.

Tale norma non esclude però in termini assoluti che, a seguito di detto rifiuto, il lavoratore possa essere licenziato per giustificato motivo oggettivo.

Il licenziamento disposto dopo il rifiuto della proposta di trasformazione non è di per sé ritorsivo e così nullo: affinché sia dichiarato nullo e disposta la reintegrazione è necessario che il lavoratore dimostri l’intento ritorsivo del datore di lavoro e che lo stesso costituisca il motivo unico ed esclusivo che ha determinato il recesso.

Ai fini della legittimità del licenziamento è determinante che il motivo non sia il rifiuto in sé alla trasformazione, ma l’impossibilità del datore di lavoro di continuare ad utilizzare la prestazione a tempo parziale e la conseguente necessità di proporre al lavoratore la modifica dell’orario.

Per non soccombere in giudizio, quindi, il datore di lavoro deve provare tre elementi: (i) la sussistenza di esigenze economiche ed organizzative tali da non consentire il mantenimento della prestazione a tempo parziale, ma solo con l’orario full time richiesto; (ii) l’avvenuta proposta al dipendente di trasformare il rapporto di lavoro a tempo pieno ed il rifiuto dello stesso; (iii) l’esistenza di un nesso causale tra le esigenze di aumento dell’orario ed il licenziamento.

In sostanza, il rifiuto alla trasformazione del rapporto di lavoro da part time a full time costituisce soltanto una componente del più ampio onere della prova del datore di lavoro, che, infatti, deve dimostrare le ragioni economiche che gli impediscono di continuare ad utilizzare la prestazione a tempo parziale e che comportano la conseguente proposta al lavoratore di passare al full time.

Questi i principi affermati nell’interessante ordinanza n. 29337 del 23/10/2023 con cui la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso di una società condannata alla reintegrazione nel posto di lavoro di un’addetta alla contabilità licenziata per soppressione della posizione lavorativa, dopo aver rifiutato la proposta di trasformare il rapporto di lavoro da part time a 20 ore settimanali a full time e dopo che la società stessa aveva formato un neoassunto per svolgere le sue stesse mansioni, ma a tempo pieno.

La proposta di trasformazione era stata formulata dalla società per fare fronte a un’effettiva necessità di riorganizzazione legata ad un incremento stabile della clientela non contestato dalle parti.

Ciò nonostante, la Corte d’Appello di Milano aveva dichiarato la nullità del licenziamento, perché ritorsivo.

Accogliendo il ricorso del datore di lavoro, la Corte di Cassazione non ha condiviso la decisione della Corte d’Appello che aveva ritenuto indimostrata l’impossibilità di attuare misure diverse dal licenziamento, come ad esempio ripartire il maggiore carico di lavoro tra le due contabili, la lavoratrice licenziata e una collega.

Nell’operare tale analisi la Corte d’Appello non ha, infatti, considerato che l’altra lavoratrice era assunta con orario part time al 90% e che, pertanto, non avrebbe potuto svolgere l’ulteriore attività per la quale alla lavoratrice licenziata era stata proposta la trasformazione da part time a 20 ore a full time.

In conclusione, in giudizio non è sindacabile la scelta imprenditoriale di sostituire la dipendente part time con una full time, ma va verificato se quella è l’unica soluzione organizzativa possibile per fare fronte al nuovo andamento dell’azienda, tant’è che il recesso dal contratto con la lavoratrice part time, che si rifiuta di modificare il proprio orario di lavoro, si manifesta appunto quale soluzione estrema del problema organizzativo.