È un tema che richiede sempre particolare attenzione quello del patto di non concorrenza in ambito lavorativo, poiché la sua regolamentazione implica attenti accorgimenti dal punto vista formale e sostanziale, allo scopo di evitare che lacune o imprecisioni possano essere invalidare l’accordo. Avevamo già fatto un punto sulla disciplina, consultabile a questo link.

Con l’ordinanza n.23418 del 25 agosto scorso, la Cassazione è tornata ad affrontare la materia, analizzando, in particolare, il limite entro il quale può estendersi l’obbligo di non concorrenza post contrattuale.

La Cassazione ha stabilito – richiamando un proprio orientamento – che il vincolo di non concorrenza può arrivare fino a vietare al lavoratore lo svolgimento di qualsivoglia mansione in mercati o settori in cui confluiscono servizi o beni identici a quelle del precedente datore di lavoro.

I giudici di legittimità hanno, infatti, stabilito che il patto non deve necessariamente limitarsi alle mansioni espletate nel corso del rapporto, ma può riguardare qualsiasi prestazione lavorativa che possa competere con le attività economiche del datore di lavoro, da identificarsi in relazione a ciascun mercato nelle sue oggettive strutture, ove convergano domande e offerte di beni o servizi identici o comunque parimenti idonei a soddisfare le esigenze della clientela del medesimo mercato.

La decisione è degna di nota in quanto la Cassazione ha dato preminenza all’interesse dell’azienda a vedersi tutelata a 360° gradi da una possibile concorrenza, prescindendo, quindi, da ogni legame con le attività che, concretamente, l’ex dipendente aveva svolto durante il pregresso rapporto.

Restano, ovviamente, fermi i principi secondo i quali il patto di non concorrenza non deve compromettere totalmente la potenzialità di reddito del dipendente e che deve essere adeguatamente remunerato – tramite un corrispettivo determinato o comunque determinabile, erogabile anche in costanza di rapporto – che sia effettivamente congruo rispetto al sacrificio imposto.