La Cassazione è tornata a pronunciarsi, con la sentenza n. 12919/2017 del 23 maggio scorso, sulla possibilità per il lavoratore di opporsi alla cessione del proprio contratto di lavoro in caso di trasferimento d’azienda.

Si rammenta che, ai sensi dell’art.2112, comma 5, c.c., per trasferimento d’azienda si intende qualsiasi operazione che, in seguito a cessione contrattuale o fusione, comporti il mutamento nella titolarità di un’attività economica organizzata, con o senza scopo di lucro, preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità, a prescindere dalla tipologia negoziale o dal provvedimento sulla base del quale il trasferimento è attuato, ivi compresi l’usufrutto o l’affitto di azienda”.

Il caso esaminato dai giudici di legittimità riguardava un lavoratore, iscritto ad un’organizzazione sindacale che non aveva sottoscritto l’accordo, ratificato invece da altre organizzazioni, esaustivo della procedura di consultazione sindacale prevista dall’art.47 L. 428/1990, preventiva rispetto al trasferimento d’azienda.

Il lavoratore, dopo avere ricevuto la comunicazione del cessionario di passaggio alle proprie dipendenze a seguito di trasferimento d’azienda, non si era poi presentato al lavoro.

Nella sentenza si legge che dapprima il cessionario aveva contestato disciplinarmente al lavoratore l’assenza ingiustificata; in seguito, aveva inviato, una “nuova” lettera con la quale specificava che “preso atto che il lavoratore non aveva mostrato interesse a svolgere attività di lavoro alle sue dipendenze, poneva nel nulla la precedente contestazione disciplinare, sul rilievo che nessun rapporto di lavoro era stato instaurato tra le parti”,

Il lavoratore impugnava, quindi, la “nuova” lettera, qualificando la stessa come licenziamento, di cui contestava la legittimità, chiedendo quindi la reintegrazione nel posto di lavoro.

Dopo due gradi di giudizio, favorevoli al cessionario, il lavoratore adiva la Corte di Cassazione: i giudici del merito avevano, infatti, ritenuto che il complessivo comportamento assunto dal lavoratore integrasse un rifiuto di concludere un contratto di lavoro con il cessionario.

La Corte di Cassazione, dopo avere ripercorso l’iter che ha portato all’emanazione dell’art.2112 c.c., ha, invece, affermato che, nell’ambito del trasferimento d’azienda, il passaggio dei contratti di lavoro dal cedente al cessionario è automatico, non essendo necessario, diversamente dall’ipotesi della cessione individuale del contratto di lavoro disciplinata dall’art.1406 c.c., il consenso dei lavoratori.

La Cassazione, richiamando la sentenza della Corte di Giustizia del 25 luglio 1991 (causa C-362/89), ha, inoltre, precisato che, nell’ambito del trasferimento d’azienda, “l’attuazione dei diritti conferiti ai lavoratori non può essere subordinata al consenso né del cedente o del cessionario, né dei rappresentanti dei lavoratori, né dei lavoratori stessi”.

La Cassazione ha, quindi, rinviato alla Corte d’Appello per un nuovo esame della vicenda, enunciando il seguente principio di diritto: “nelle ipotesi di cessione d’azienda si realizza, con riferimento alla posizione del lavoratore, una successione legale nel contratto che non richiede il consenso del contraente ceduto [ndr, il lavoratore], il quale potrà esercitare il proprio diritto di recesso nei termini sanciti dal comma quarto dell’art.2112 c.c.”.

Da quanto sopra emerge, quindi, che l’unico modo effettivo per il lavoratore di opporsi al passaggio del proprio contratto di lavoro dal cedente al cessionario è quello di recedere dal contratto stesso, eventualmente anche nelle forme di cui al comma 4 dell’art.2112 c.c., che stabilisce che il lavoratore, le cui condizioni di lavoro subiscono una sostanziale modifica nei tre mesi successivi al trasferimento d’azienda, può rassegnare le proprie dimissioni per giusta causa, con conseguente diritto all’indennità sostitutiva del preavviso.

 

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