Pare quasi incredibile che, a distanza di oltre centottanta anni dalla morte del poeta, esista ancora una parte vastissima della riflessione leopardiana rimasta sostanzialmente inesplorata. Non tutti sanno, infatti, che nell’opera di Giacomo Leopardi si cela una florida riflessione politico-giuridica, strettamente connessa alla più nota teoria metafisica ed estetica, che fa del pensatore recanatese uno dei massimi filosofi politici dell’Europa dell’800. Le riflessioni dedicate alle istituzioni politiche e alle forme di stato e di governo provengono da opere diverse, tanto in prosa che in poesia, risalenti a periodi temporali anche distanti, ma, pur parendo talora frammentarie o incomplete, costituiscono, nel loro complesso, un vero e proprio sistema, che merita di essere studiato e portato alla luce – e non solo dai letterati, ma dai giuristi, e in specie dai costituzionalisti: un sistema che ruota attorno al concetto, centrale in tutta la poetica (e la vita) di Leopardi, dell’illusione:

Io non tengo le illusioni per mere vanità, ma per cose in certo modo sostanziali, giacché non sono capricci particolari di questo o di quello, ma naturali e ingenite essenzialmente in ciascheduno; e compongono tutta la nostra vita

(A Pietro Giordani, 30 giugno 1820).

L’indagine politica e giuridica – come, del resto, quella metafisica ed estetica – è acuta, critica, feroce, strettamente fondata sull’osservazione incessante delle cose umane e altamente problematica. Il suo pensiero è articolato e si sviluppa lungo diverse trame.

Anzitutto, la concezione della storia e del progresso è radicalmente negativa, in netta opposizione alla fiducia del suo secolo nella perfettibilità dell’uomo (“dipinte in queste rive / son dell’umana gente / le magnifiche sorti e progressive”, La Ginestra). Leopardi afferma, risolutamente, che lo Stato non è retto dalla verità e distrutto dall’errore, come comunemente si pensa, ma, esattamente all’opposto, è conservato dall’errore e distrutto dalla verità. Solamente le illusioni (gloria, onore, virtù, amor patrio…) consentono la conservazione della società, mentre l’arida verità svelata dalla ragione distrugge ogni comunità politica. Questo pare essere uno degli spunti originalissimi della filosofia politica leopardiana:

la salvaguardia della libertà delle nazioni non è la filosofia né la ragione, come ora si pretende che queste debbano rigenerare le cose pubbliche, ma le virtù, le illusioni, l’entusiasmo, insomma la natura, dalla quale siamo lontanissimi (Zibaldone, 114-115).

Senza le illusioni (gli errori) che regnavano presso i popoli antichi, ogni legame tra gli uomini si affievolisce fino a spegnersi, scompaiono il senso di appartenenza alla nazione e l’interesse per le sorti comuni. Il senso civico, essenziale alla sopravvivenza di ogni comunità politica (“Tutti sanno con Orazio che le leggi senza i costumi non bastano, e da altra parte che i costumi dipendono e sono determinati e fondati principalmente e garantiti dalle opinioni”, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani, 1826), viene sostituito dall’egoismo, sicché l’uomo si trova irrimediabilmente rinchiuso dentro la gabbia dei propri interessi privati:

La pura ragione dissipa le illusioni e conduce per mano l’egoismo. L’egoismo spoglio d’illusioni, estingue lo spirito nazionale, la virtù ec. e divide le nazioni per teste, vale a dire in tante parti quanti sono gl’individui (Zibaldone, 161). Mentre le nazioni per l’esteriore vanno a divenire tutta una persona, e oramai non si distingue più uomo da uomo, ciascun uomo poi nell’interiore è divenuto una nazione, vale a dire che non hanno interesse comune con chicchessia, non formano più corpo, non hanno più patria, e l’egoismo gli restringe dentro il solo circolo de’ propri interessi, senza amore né cura degli altri, né legame né rapporto nessuno interiore col resto degli uomini […]. E per questo capo si può dire che ora ci son tante nazioni quanti individui, bensì tutti uguali anche in questo che non hanno altro amore né idolo che se stessi

(Zibaldone, 148-149).

Le premesse antropologiche del pensiero leopardiano sono radicalmente negative, e poggiano, contrariamente alla credenza dominante, sulla anti-socialità dell’essere umano. L’amor proprio, necessario a ogni vivente, e massimamente all’uomo che è la più sensibile delle creature, è un amore di preferenza, cioè l’individuo, amandosi, si preferisce agli altri e cerca di soverchiarli in quanto può, cosicché l’odio degli altri è una conseguenza necessaria e immediata dell’amore di sé stessi. Ne deriva una critica feroce a ogni facile ideologia cosmopolitica e universalistica: ogni comunità politica ha bisogno, per non disgregarsi all’interno, di un nemico esterno verso il quale dirigere tale sentimento distruttivo. Pertanto, l’amore universale non solo è impossibile, in quanto l’uomo non può amare un oggetto tanto indefinito e lontano senza perdere di vista sé stesso, ma è dannosissimo alle società. Infatti, sostituire l’amor patrio con l’amore universale di tutti gli uomini, significa, data l’impossibilità di quest’ultimo, annientare il primo, e finire con l’amare soltanto se stessi:

Ed ecco un’altra bella curiosità della filosofia moderna. Questa signora ha trattato l’amor patrio d’illusione. Ha voluto che il mondo fosse tutta una patria, e l’amore universale di tutti gli uomini: […] l’effetto è stato che in fatti l’amor di patria non c’è più, ma in vece che tutti gl’individui del mondo riconoscessero una patria, tutte le patrie si son divise in tante patrie quanti sono gl’individui, e la riunione universale promossa dalla egregia filosofia s’è convertita in una separazione individuale

(Zibaldone, 149).

Qui sta la lucidità della sua intuizione: se l’uomo perde, nel tentativo innaturale di amare il mondo intero come unica patria, l’amore particolare della propria comunità, non potrà che sostituirlo con l’egoismo individuale, cioè l’amore esclusivo di sé stesso. Ciò significa che, data la naturale necessità dell’odio, se prima i nemici erano gli stranieri, dopo, mancando questi, diventeranno nemici i concittadini, i vicini, i familiari; se prima la guerra si faceva saltuariamente e solo tra nazioni diverse, dopo si farà tutti i giorni e tra cittadini della stessa nazione. Pare straordinario notare qui, con un secolo di anticipo, il nucleo dell’opposizione amico-nemico sul quale Carl Schmitt fonderà, in pieno novecento, la propria riflessione sulle categorie del politico.

Si intende, da quanto detto finora, l’importanza che Leopardi attribuisce al principio di unità – oggi diremmo solidarietà, o coesione sociale – come fondamento essenziale di ogni comunità politica:

Come dunque lo scopo della società è il ben comune; e il mezzo di ottenerlo è la cospirazione degl’individui al detto bene, ossia l’unità; così l’ordine, lo stato vero, la perfezione della società, non può essere se non quello che produce e cagiona perfettamente questa cospirazione e unità. Giacché la perfezione di qualunque cosa, non è altro che la sua intera corrispondenza al suo fine

(Zibaldone, 549).

Si tratta di riflessioni che avvicinano Leopardi a quella parte della riflessione costituzionalistica contemporanea che ha identificato proprio nel bisogno di unità uno dei problemi cruciali delle democrazie pluralistiche: come soddisfare il bisogno essenziale di omogeneità proprio di ogni comunità politica, come garantire che tutti i membri della società contribuiscano al bene comune, come garantire un’aderenza di fondo ai valori dello Stato pur tutelando le minoranze, come garantire la governabilità evitando la disgregazione sociale e il disinteresse per le sorti comuni? Sul punto, Leopardi sembra essere stato il primo a comprendere pienamente quanto complessi siano i percorsi dell’unità di una comunità politica.

Da qui prende le mosse una complessa teoria sulle forme di Stato: se in origine la monarchia assoluta era la migliore forma di organizzazione politica (“il primo, vero, e naturale governo”, Zibaldone, 560) in quanto, attribuendo la capacità di decidere a un sovrano, realizzava perfettamente il principio d’unità, nell’età moderna le cose vanno diversamente. Leopardi afferma che la monarchia può funzionare soltanto finché le illusioni mantengono retto e probo il sovrano, che agirà nell’interesse collettivo; in caso contrario, essa si trasforma in una tirannia feroce (“da che dunque il principe fu cattivo, o non perfetto, la monarchia perdé la sua ragione, perché non poteva più corrispondere al suo scopo, cioè al ben comune. L’unità restava, ma non il di lei fine”, Zibaldone, 559).

Perduta quella prima forma di stato, gli uomini crearono le repubbliche e divisero i poteri. Da allora non sono più esistite né mai potranno esistere forme di governo perfette, in quanto dettate dalla natura, ma solamente più o meno cattive, più o meno adatte a procurare l’infelicità degli uomini. In questa visione radicalmente negativa della politica e della società, Leopardi sembra indicare la democrazia come la forma di stato meno peggiore; ma soltanto a condizione che le illusioni conservino una certa positiva influenza nella società:

Lo stato libero e democratico, fino a tanto che il popolo conservò tanto di natura da esser suscettibile in potenza e in atto, di virtù di eroismo, di grandi illusioni, di forza d’animo, di buoni costumi; fu certamente il migliore di tutti (Zibaldone, 563).

In caso contrario, invece, le nazioni (le patrie) svaniscono e si produce una frattura insanabile tra le istituzioni e la comunità, una distanza incolmabile tra il governo e la nazione: non esistono più cittadini, ma soltanto sudditi (riflessione di sconcertante attualità se si pensa alla moderna crisi della rappresentanza politica). Potrebbe allora quasi dedursi che per Leopardi ogni governo moderno risulta privo di legittimazione democratica. Proprio nel secolo che vede affermarsi il concetto di nazione, egli afferma che essa è già morta ed era propria solamente del mondo antico, ormai irrimediabilmente perduto. Così, mentre nelle repubbliche di un tempo le cause degli avvenimenti erano note e si discutevano pubblicamente, nell’età moderna invece le decisioni sono prese da poche persone (percepite come lontane) e secondo criteri ignoti al popolo (“ora che il potere è ridotto in pochissimi, si vedono gli avvenimenti e non si sanno i motivi, e il mondo è come quelle macchine che si muovono per molle occulte, o quelle statue fatte camminare da persone nascostevi dentro”, Zibaldone, 120).

Quelle appena accennate sono solo alcune delle numerosissime, complesse, profonde e articolate ramificazioni in cui si sviluppa la riflessione del poeta sul diritto e la politica, e questo breve scritto non mira ad altro che a essere un invito, rivolto a tutti, a rileggere Giacomo Leopardi; non foss’altro per l’effetto che – nelle parole del grande Francesco De Sanctis – il poeta di Recanati produce nel cuore di chi lo legge:

Leopardi produce l’effetto contrario a quello che si propone. Non crede al progresso, e te lo fa desiderare; non crede alla libertà, e te la fa amare. Chiama illusioni l’amore, la gloria, la virtù, e te ne accende in petto un desiderio inesausto. E non puoi lasciarlo, che non ti senta migliore; e non puoi accostartegli, che non cerchi innanzi di raccoglierti e purificarti, perché non abbi ad arrossire al suo cospetto. È scettico, e ti fa credente; e mentre non crede possibile un avvenire men tristo per la patria comune, ti desta in seno un vivo amore per quella e t’infiamma a nobili fatti. Ha così basso concetto dell’umanità, e la sua anima alta, gentile e pura l’onora e la nobilita.